Personalità dipendente
Laura Pedrazin, Laurea in Psicologia Clinica, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano,
Ordine degli Psicologi della Lombardia n°25499
Caso clinico: “Chiara e il diritto di occupare uno spazio”
Il caso
Chiara ha 29 anni, lavora come segretaria in uno studio medico e si presenta in terapia dopo la fine di una relazione di tre anni. Nonostante fosse una storia segnata da numerose critiche e svalutazioni da parte del partner, Chiara racconta di essersi sentita “perdere un pezzo di sé” quando lui ha deciso di lasciarla. “Non riesco a stare da sola, è come se senza qualcuno accanto non avessi più contorni”, dice con voce spezzata durante uno dei primi colloqui.
Ha un tono gentile, spesso incline alla sottomissione, e fa fatica a parlare di sé se non in relazione a qualcun altro. Raramente esprime rabbia, anche quando racconta episodi di evidente ingiustizia o umiliazione. È solita cercare il consenso del terapeuta, osservando attentamente le sue reazioni per “capire se sta andando bene”. Durante le prime sedute, ha più volte mandato messaggi tra un incontro e l’altro, chiedendo conferma dell’orario, scusandosi per “disturbare”, o esprimendo timore di aver “fatto qualcosa di sbagliato”.
Il disturbo
Il quadro di funzionamento di Chiara rimanda a una personalità dipendente, contraddistinta da un bisogno profondo – spesso inconsapevole – di affidarsi all’altro come fonte principale di stabilità, conferma e identità. Il timore dell’abbandono non è solo legato alla solitudine concreta, ma al rischio di perdere un senso interno di coerenza e valore. In queste personalità, la rabbia e l’autonomia sono vissute come pericolose, perché potrebbero rompere il legame, quindi vengono frequentemente represse o dissociate.

Il trattamento
Nel lavoro terapeutico, è stato centrale fin dall’inizio offrire una presenza stabile e coerente, ma anche evitare di rinforzare le dinamiche di dipendenza. Il terapeuta ha accolto i bisogni di rassicurazione senza criticarli, ma ha progressivamente invitato Chiara a portare in seduta ciò che accadeva tra gli incontri, lavorando sul significato profondo dei suoi messaggi e sul senso di insicurezza che li accompagnava.
Uno degli snodi principali del trattamento è stato rendere pensabile l’ambivalenza: Chiara faticava a tollerare l’idea di provare sentimenti negativi verso le persone di cui aveva bisogno. È stato necessario aiutare a nominare la rabbia senza che ciò implicasse colpa o rottura del legame. Ad esempio, quando il terapeuta propose una pausa estiva, Chiara rispose con comprensione, ma il corpo raccontava altro: insonnia, pianto, inquietudine. Portare in seduta questi vissuti ha permesso di lavorare sulla convinzione inconscia che esprimere un bisogno potesse mettere a rischio l’amore dell’altro.
Il trattamento si è orientato nel tempo a sostenere lo sviluppo di un senso di sé più autonomo: aiutando Chiara a tollerare momenti di separazione, a prendere decisioni senza cercare immediatamente approvazione, a distinguere tra cura autentica e compiacimento automatico. Il processo non ha forzato l’autonomia, ma ha accompagnato la paziente nel difficile compito di sperimentarla in uno spazio sicuro, dove l’altro – il terapeuta – potesse rimanere presente anche quando lei rischiava di dissentire, dubitare o semplicemente avere bisogno.
Se stai vivendo, o conosci qualcuno che vive, un momento di depressione, parlare con un professionista della salute mentale può essere un passo importante per comprendere la situazione e intraprendere un percorso di sostegno personalizzato.
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